Dall’angolo di via Agrigento, percorrendo via Piave fino allo Sbarcadero, ci saranno sì e no quattrocento metri.
Se quel tratto lo fai a piedi, e ci metti mezz’ora invece di cinque minuti, allora cominci a respirare con più calma. Ascolti i rumori, le voci che escono dai piccoli negozi, quelle che restano dentro. Incontri le persone, che dopo appena un mese che vivi qui ti salutano, e ti dicono qualcosa in siciliano. E allora la passeggiata diventa un’altra cosa: non più uno spostamento, ma un ritorno, anche se sei appena arrivato. Il mare, laggiù in fondo, man mano che ti avvicini ti accoglie col suo odore: a volte acre, quando le onde si infrangono bianche e furiose contro le rocce; altre volte con il profumo salmastro delle alghe, quando l’acqua è piatta e calma. Tutto ti fa sentire in pace con la vita. Arrivo alla piccola spiaggia, racchiusa tra l’Approdo Santa Lucia e il lungo frangiflutti che separa il mare aperto dal Porto Piccolo. Un bar con una minuscola terrazza sul mare mi accoglie, a seconda della stagione o dell’umore, con un cappuccino, un cornetto, o una granita con brioche senza tuppo. Qui il tempo non è sospeso, è semplicemente dilatato. Tutto succede più lentamente, ma nulla si perde davvero. D’estate, quando la calura si fa eccessiva, verso le sei del pomeriggio, esco di casa e percorro la falsa discesa di via Piave fino al mare. Lì, i tubi Innocenti arrugginiti dalle troppe stagioni, sormontati da tavole sbiadite, diventano rifugio per bagnanti e comitive di ogni età. Famiglie intere, amici, solitari, turisti spaesati e habitué si incrociano senza scontrarsi, come onde che si sfiorano. C’è chi legge, chi chiacchiera, chi resta in silenzio. Tutti sembrano sapere che il rumore vero è quello delle cicale, dei bambini che giocano, del mare che ritorna. Lascio la T-shirt e le Havaianas su un tavolaccio, scendo i pochi gradini che si immergono nel meraviglioso Mar Ionio, e finalmente mi tuffo. Il mare mi abbraccia. E lo fa con tutto l’amore possibile.
A volte resto a galla, senza fare nulla. Osservo la costa, le pietre, le persone. Gli stessi gesti, gli stessi volti. Eppure, ogni giorno, qualcosa cambia. Forse è per questo che ho iniziato a fotografare: per raccogliere quei frammenti di quotidiano che sembrano sempre lì, ma in realtà passano. Come le onde, come certe estati, come certi sguardi.
Lo Sbarcadero non è solo un luogo: è un’abitudine, una memoria, una geografia affettiva. È lo stesso oggi come ieri, ma anche profondamente diverso.
E questo libro nasce da lì. Dal bisogno di custodire, senza fermare. Di restituire, senza spiegare. Di guardare le cose come se fosse la prima volta, anche se le conosci da sempre.

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